Quattroscene
lunedì, marzo 30, 2009 | Author: Ale [Tredici]
(1)

Michele sta guardando i suoi occhi riflessi nel finestrino. Pensa che non riesce a distinguerne il colore, nonostante sappia benissimo di possedere due iridi tinte d’un azzurro glaciale; due iridi che s’intonano alla perfezione col viso cereo, macchiato soltanto dalla scia rossa delle labbra. I cavi bianchi dell’ipod spuntano dai jeans e risalgono il petto del ragazzo fino a scomparire in una miriade di riccioli neri. La musica riesce a coprire il fracasso costante che il vecchio pullman produce nella sua corsa attraverso la notte.
Michele osserva i suoi occhi, poi li assottiglia, per cercare di vedere oltre il vetro. Niente da fare: l’illuminazione all’interno del pullman è troppo intensa, così come l’oscurità che domina all’esterno. Michele sospira, lasciando che l’ansia contenuta nel proprio respiro si perda tra le note della canzone che gira in quel momento. Torna ad appoggiare la fronte sul vetro, dove adesso vede riflessa una robusta donna di colore. Si volta, pone la visuale all’interno dell’autobus. E percepisce due labbra scure che si rivolgono proprio a lui, senza tuttavia emettere alcun suono.
Michele tira il cavo degli auricolari. E’ un attimo, e tutti i rumori del mondo reale gli convergono addosso: le ruote che pesantemente inseguono l’asfalto; la radio dell’autista che vibra, tenue, in sottofondo; l’eco impercettibile dell’ipod che ubbidiente continua a funzionare. E l’accento africano di una signora vestita di verde.
“…mano te?”
“Come, scusi?”
“Vuoi io leggere mano te?”
Michele torna ad affondare la fronte nel finestrino. L’intenzione di rimettersi gli auricolari non trova concretezza, perché il movimento del ragazzo è bloccato con insistenza da un braccio scuro.
“Io leggere mano te.”
“No, mi dispiace, non ho spiccioli.”
“Spiccioli?”
“Soldi.”
“Io no volere soldi! Io solo volere leggere mano te.”
Seccato, Michele si stringe sul sedile, facendo posto alla donna che subito siede accanto al ragazzo. Lei cerca il palmo dell’altro, lo tira a sé, ne apre le dita con la stessa disinvoltura con cui si sfoglia una margherita. Infine, lo posa sulle sue gambe. Gli occhi della donna sono intrisi di nera avidità mentre scorrono sulle linee disegnate sulla mancina del ragazzo.
“Questa essere linea di amore. Ohh, ragazzo pieno di amore tu!”
“E’ sicura di saper leggere?”
Nel volto della donna riluce un sorriso.
“Io migliore di paese mio.”
“Mh, se lo dice lei…”
Anche Michele sorride. Quell’incontro ha colorato di diversità il suo viaggio in autobus.
“Questa essere linea di fortuna. Ragazzo no tanto fortunato tu.”
“Eh si sa. Pazienza.”
“Fortuna importante. Ma amore di più.”
“Se lo dice lei…”
Ripete Michele, quasi divertito. Scuote la testa, cosicché dense ciocche di nera vernice oscillano sulle spalle del ragazzo. Riverberi ombrosi si dipingono sul volto pallido, che curioso aspetta un terzo verdetto dalla donna.
“Questa essere linea di vita.”
Il sorriso che scema, il viso che si ghiaccia. Gli occhi dell’africana, pietrificati dall’orrore, ricercano quelli di Michele.
“Tu pericolo.”
“Eh?”
“Morte, morte vicina!”
“Non si preoccupi, non credo a queste cose.”
“Linea dice che morte è ora.”
“Ma la smetta!”
Michele ritira la mano. Nello sguardo due fessure azzurre riflettono ostilità. Rivolge un cenno affilato alla donna, che obbediente si allontana dal sedile, lasciando dietro sé la traccia verde del proprio vestito.
Il ragazzo infila gli auricolari nelle orecchie. Sente la musica dare un ritmo ai pensieri, ma non la ascolta veramente. Toglie uno zaino da sotto il sedile. Lo porta al petto, e lentamente apre la cerniera. Butta un’occhiata all’interno. Gli basta un attimo per vedere il calcio di una pistola.

Tristezza
venerdì, marzo 27, 2009 | Author: Ale [Tredici]
Sostantivo, femminile.

(1) Il sentimento che ti prende nel salire sul pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(2) Lo sguardo condannato dell'autista del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(3) I sedili vuoti del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.

(4) Le facce stanche dei pochi passeggeri morti del pullman delle 18:19, Lucca via Ripafratta.


Vorrei essere
martedì, marzo 17, 2009 | Author: Ale [Tredici]
Vorrei essere un poliziotto. Di quelli che vanno a giro in borghese, coi jeans belli e il giacchetto di pelle bello. Si riconosce subito un poliziotto in borghese: hanno i jeans belli, il giacchetto di pelle bello, gli occhiali da sole (belli) e la classica espressione io-sono-un-tipo-tosto. E' meraviglioso quando partono a correre, scattano verso il criminale impugnando la pistola, lo bloccano in una strada senza uscita (che è sempre la solita strada senza uscita, con i muri altissimi su tre lati e un bidone dell'immondizia) e, con la sicurezza di chi sa di essere superfighissimo, gli dicono: "Sei arrivato al capolinea, amico".

Vorrei essere un medico. Ma non un medico di famiglia, o un medico noioso della vita di tutti i giorni. Con tutto il rispetto per loro, ovviamente. Il medico che vorrei essere avrebbe tutta una sua filosofia, tutto un suo stile. Chessò: cinico all'estremo, dal sarcasmo facile, costretto a camminare con un bastone, assuefatto di antidolorifici... Ah, già è stato inventato?

Vorrei essere un calciatore. Una trentina di miliardi per stipendio, una trentina di vocaboli di lessico, una trentina di micrometri cubici di dimensioni cerebrali, una trentina di secondi come tempo di reazione. No, non sto generalizzando. E' scientificamente provato che la grandezza cranica di un calciatore è inversamente proporzionale al suo conto in banca. Ed è ormai assodato che l'incapacità di pensare sia uno dei pregi più utili che si possa avere.

Vorrei essere un fisico. Perché io non riesco proprio a concepirla questa ossessione di volersi spiegare i fenomeni naturali, a chiedersi il motivo di ogni cosa che accade. Beh, quando è utile, quando porta benessere, quando è giusto, allora sì. Ma di norma io preferisco il mistero, la suspense, l'ignoto. E restare stupito. Mi ricordo che quando la maestra di scienze mi spiegò come si forma l'arcobaleno io andai a casa tutto mogio. Per forza: mi aveva rovinato la poesia. Peggio che dirmi che Babbo Natale non esiste (cosa che, tra l'altro mi disse un'altra maestra. A pensarci bene... io avevo proprio delle maestre terroriste!).

Vorrei essere un regista. Che è la piena espressione del potere. Il suo compito è avere il controllo di tutto ciò che accade nel loro mondo. Un regista sa come muovere i burattini, sa come disporre i dettagli, sa come pronunciare i verbi. Muove una mano, schiocca le dita, apre le labbra e ordina il suo volere. Lui è il Dio, e gli altri non sono altro che un'inutile accozzaglia di organi.

In realtà... no, non vorrei essere niente di tutto questo. Ma scriverlo è stato - in qualche modo - divertente.
Goccia di pioggia sognante
mercoledì, marzo 04, 2009 | Author: Ale [Tredici]
Marzo è iniziato, ed è iniziato in modo pessimo.
Per esempio, piove.
Piove. Anche adesso, piove.
Infatti alzo il volume della musica, per non sentire altro. Che poi il ticchettio frenetico sulla tastiera ricorda tanto la pioggia che arriva giù, per cui ci dovrei essere pressoché abituato.
Pensavo: è buffa, la goccia di pioggia, no? Sfreccia giù incazzata nera, convinta di distruggere tutto, urlando che nessuno la può fermare. E poi: tic. Desolante. Dovrebbe prendersi un po' meno sul serio, secondo me. Ho capito: si illude! Sì, si illude mentre scende, si illude di poter inondare, di affogare, di sommergere, di annegare, di affondare, di inabissare, di travolgere. Ma poi: tic, l'impatto. Ah ah ah. E' solo una goccia di pioggia sognante. Cosa può fare contro il suolo, quel suolo freddo e sconfinato e duro e razionale? Terra compatta, fatta di convenzioni e concretezze. Solida roccia, una fusione precisa di regole e stereotipi. E allora eccola: cozza in un urto violento contro la superficie, poi sembra smarrita, trova una via nel terreno, filtra attraverso i granelli, scivola giù. E poi muore. Muore, la goccia di pioggia sognante, portando ancora dentro sé i ricordi - ormai relitti evanescenti - delle proprie speranze.