Michele sta guardando i suoi occhi riflessi nel finestrino. Pensa che non riesce a distinguerne il colore, nonostante sappia benissimo di possedere due iridi tinte d’un azzurro glaciale; due iridi che s’intonano alla perfezione col viso cereo, macchiato soltanto dalla scia rossa delle labbra. I cavi bianchi dell’ipod spuntano dai jeans e risalgono il petto del ragazzo fino a scomparire in una miriade di riccioli neri. La musica riesce a coprire il fracasso costante che il vecchio pullman produce nella sua corsa attraverso la notte. Michele osserva i suoi occhi, poi li assottiglia, per cercare di vedere oltre il vetro. Niente da fare: l’illuminazione all’interno del pullman è troppo intensa, così come l’oscurità che domina all’esterno. Michele sospira, lasciando che l’ansia contenuta nel proprio respiro si perda tra le note della canzone che gira in quel momento. Torna ad appoggiare la fronte sul vetro, dove adesso vede riflessa una robusta donna di colore. Si volta, pone la visuale all’interno dell’autobus. E percepisce due labbra scure che si rivolgono proprio a lui, senza tuttavia emettere alcun suono. Michele tira il cavo degli auricolari. E’ un attimo, e tutti i rumori del mondo reale gli convergono addosso: le ruote che pesantemente inseguono l’asfalto; la radio dell’autista che vibra, tenue, in sottofondo; l’eco impercettibile dell’ipod che ubbidiente continua a funzionare. E l’accento africano di una signora vestita di verde. “…mano te?” “Come, scusi?” “Vuoi io leggere mano te?” Michele torna ad affondare la fronte nel finestrino. L’intenzione di rimettersi gli auricolari non trova concretezza, perché il movimento del ragazzo è bloccato con insistenza da un braccio scuro. “Io leggere mano te.” “No, mi dispiace, non ho spiccioli.” “Spiccioli?” “Soldi.” “Io no volere soldi! Io solo volere leggere mano te.” Seccato, Michele si stringe sul sedile, facendo posto alla donna che subito siede accanto al ragazzo. Lei cerca il palmo dell’altro, lo tira a sé, ne apre le dita con la stessa disinvoltura con cui si sfoglia una margherita. Infine, lo posa sulle sue gambe. Gli occhi della donna sono intrisi di nera avidità mentre scorrono sulle linee disegnate sulla mancina del ragazzo. “Questa essere linea di amore. Ohh, ragazzo pieno di amore tu!” “E’ sicura di saper leggere?” Nel volto della donna riluce un sorriso. “Io migliore di paese mio.” “Mh, se lo dice lei…” Anche Michele sorride. Quell’incontro ha colorato di diversità il suo viaggio in autobus. “Questa essere linea di fortuna. Ragazzo no tanto fortunato tu.” “Eh si sa. Pazienza.” “Fortuna importante. Ma amore di più.” “Se lo dice lei…” Ripete Michele, quasi divertito. Scuote la testa, cosicché dense ciocche di nera vernice oscillano sulle spalle del ragazzo. Riverberi ombrosi si dipingono sul volto pallido, che curioso aspetta un terzo verdetto dalla donna. “Questa essere linea di vita.” Il sorriso che scema, il viso che si ghiaccia. Gli occhi dell’africana, pietrificati dall’orrore, ricercano quelli di Michele. “Tu pericolo.” “Eh?” “Morte, morte vicina!” “Non si preoccupi, non credo a queste cose.” “Linea dice che morte è ora.” “Ma la smetta!” Michele ritira la mano. Nello sguardo due fessure azzurre riflettono ostilità. Rivolge un cenno affilato alla donna, che obbediente si allontana dal sedile, lasciando dietro sé la traccia verde del proprio vestito. Il ragazzo infila gli auricolari nelle orecchie. Sente la musica dare un ritmo ai pensieri, ma non la ascolta veramente. Toglie uno zaino da sotto il sedile. Lo porta al petto, e lentamente apre la cerniera. Butta un’occhiata all’interno. Gli basta un attimo per vedere il calcio di una pistola.
Vorrei essere un poliziotto. Di quelli che vanno a giro in borghese, coi jeans belli e il giacchetto di pelle bello. Si riconosce subito un poliziotto in borghese: hanno i jeans belli, il giacchetto di pelle bello, gli occhiali da sole (belli) e la classica espressione io-sono-un-tipo-tosto. E' meraviglioso quando partono a correre, scattano verso il criminale impugnando la pistola, lo bloccano in una strada senza uscita (che è sempre la solita strada senza uscita, con i muri altissimi su tre lati e un bidone dell'immondizia) e, con la sicurezza di chi sa di essere superfighissimo, gli dicono: "Sei arrivato al capolinea, amico".
Vorrei essere un medico. Ma non un medico di famiglia, o un medico noioso della vita di tutti i giorni. Con tutto il rispetto per loro, ovviamente. Il medico che vorrei essere avrebbe tutta una sua filosofia, tutto un suo stile. Chessò: cinico all'estremo, dal sarcasmo facile, costretto a camminare con un bastone, assuefatto di antidolorifici... Ah, già è stato inventato?
Vorrei essere un calciatore. Una trentina di miliardi per stipendio, una trentina di vocaboli di lessico, una trentina di micrometri cubici di dimensioni cerebrali, una trentina di secondi come tempo di reazione. No, non sto generalizzando. E' scientificamente provato che la grandezza cranica di un calciatore è inversamente proporzionale al suo conto in banca. Ed è ormai assodato che l'incapacità di pensare sia uno dei pregi più utili che si possa avere.
Vorrei essere un fisico. Perché io non riesco proprio a concepirla questa ossessione di volersi spiegare i fenomeni naturali, a chiedersi il motivo di ogni cosa che accade. Beh, quando è utile, quando porta benessere, quando è giusto, allora sì. Ma di norma io preferisco il mistero, la suspense, l'ignoto. E restare stupito. Mi ricordo che quando la maestra di scienze mi spiegò come si forma l'arcobaleno io andai a casa tutto mogio. Per forza: mi aveva rovinato la poesia. Peggio che dirmi che Babbo Natale non esiste (cosa che, tra l'altro mi disse un'altra maestra. A pensarci bene... io avevo proprio delle maestre terroriste!).
Vorrei essere un regista. Che è la piena espressione del potere. Il suo compito è avere il controllo di tutto ciò che accade nel loro mondo. Un regista sa come muovere i burattini, sa come disporre i dettagli, sa come pronunciare i verbi. Muove una mano, schiocca le dita, apre le labbra e ordina il suo volere. Lui è il Dio, e gli altri non sono altro che un'inutile accozzaglia di organi.
In realtà... no, non vorrei essere niente di tutto questo. Ma scriverlo è stato - in qualche modo - divertente.
Marzo è iniziato, ed è iniziato in modo pessimo. Per esempio, piove. Piove. Anche adesso, piove. Infatti alzo il volume della musica, per non sentire altro. Che poi il ticchettio frenetico sulla tastiera ricorda tanto la pioggia che arriva giù, per cui ci dovrei essere pressoché abituato. Pensavo: è buffa, la goccia di pioggia, no? Sfreccia giù incazzata nera, convinta di distruggere tutto, urlando che nessuno la può fermare. E poi: tic. Desolante. Dovrebbe prendersi un po' meno sul serio, secondo me. Ho capito: si illude! Sì, si illude mentre scende, si illude di poter inondare, di affogare, di sommergere, di annegare, di affondare, di inabissare, di travolgere. Ma poi: tic, l'impatto. Ah ah ah. E' solo una goccia di pioggia sognante. Cosa può fare contro il suolo, quel suolo freddo e sconfinato e duro e razionale? Terra compatta, fatta di convenzioni e concretezze. Solida roccia, una fusione precisa di regole e stereotipi. E allora eccola: cozza in un urto violento contro la superficie, poi sembra smarrita, trova una via nel terreno, filtra attraverso i granelli, scivola giù. E poi muore. Muore, la goccia di pioggia sognante, portando ancora dentro sé i ricordi - ormai relitti evanescenti - delle proprie speranze.
giovedì, febbraio 26, 2009
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Ale [Tredici]
Vivo tutti i miei giorni aspettando Godot, dormo tutte le notti aspettando Godot. Ho passato la vita ad aspettare Godot.
Nacqui un giorno di marzo o d'aprile non so mia madre che mi allatta è un ricordo che ho ma credo che già in quel giorno però invece di poppare io aspettassi Godot. Nei prati verdi della mia infanzia nei luoghi azzurri di cieli e aquiloni, nei giorni sereni che non rivedrò io stavo già aspettando Godot. L'adolescenza mi strappò di là, e mi portò ad un tavolo grigio, dove fra tanti libri però, invece di leggere aspettavo Godot. Giorni e giorni a quei tavolini, gli amici e le donne vedevo vicini, io mi mangiavo le mani però, non mi muovevo e aspettavo Godot.
Ma se i sensi comandano l'uomo obbedisce, così sposai la prima che incontrai, ma anche la notte di nozze però, non feci nulla aspettando Godot. Poi lei mi costrinse ed un figlio arrivò, piccolo e tondo urlava ogni sera, ma invece di farlo giocare un po', io uscivo fuori ad aspettare Godot. E dopo questo un altro arrivò, e dopo il secondo un altro però, per esser del tutto sincero dirò, che avrei preferito arrivasse Godot. Sono invecchiato aspettando Godot, ho sepolto mio padre aspettando Godot, ho cresciuto i miei figli aspettando Godot. Sono andato in pensione dieci anni fa, ed ho perso la moglie acquistando in età, i miei figli son grandi e lontani però, io sto ancora aspettando Godot.
Questa sera sono un vecchio di settantanni, solo e malato in mezzo a una strada, dopo tanta vita più pazienza non ho, non posso più aspettare Godot. Ma questa strada mi porta fortuna, c'è un pozzo laggiù che specchia la luna, è buio profondo e mi ci butterò, senza aspettare che arrivi Godot. In pochi passi ci sono davanti, ho il viso sudato e le mani tremanti, è la prima volta che sto per agire, senza aspettare che arrivi Godot. Ma l'abitudine di tutta una vita, ha fatto si che ancora una volta, per un momento io mi sia girato, a veder se per caso Godot era arrivato. La morte mi ha preso le mani e la vita, l'oblio mi ha coperto di luce infinita, e ho capito che non si può, coprirsi le spalle aspettando Godot.
Non ho mai agito aspettando Godot, per tutti i miei giorni aspettando Godot, e ho incominciato a vivere forte, proprio andando incontro alla morte, ho incominciato a vivere forte, proprio andando incontro alla morte.
domenica, febbraio 22, 2009
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Ale [Tredici]
Sono stato a vedere Il curioso caso di Benjamin Button. Delle due ore e mezzo di film (eccessive, cacchio!) la scena che più mi ha colpito dura sì e no trenta secondi, e secondo me merita di andare al cinema solo per quei trenta secondi.
C'è la bimba che sveglia Benjamin nel cuore della notte. Lui a fatica si alza e insieme vanno sotto il tavolo, dove lei ha allestito una specie di casetta. Lì accendono una candela, e parlano. Poche battute. E a un certo punto lei dice "Sei strano...". Lo dice e mostra un sorriso sincero, come se davvero una persona potesse essere felice all'idea di qualcuno che è... strano. L'ingenuità nei lineamenti, la purezza negli occhi, l'innocenza sulle labbra sorridenti. "Sei strano... Sei diverso da tutti gli altri che ho incontrato." Dice. Poi la scena prosegue, ma non ricordo i dettagli esatti.
No, niente, è che mi ricordo questa scena, e volevo scriverla qui.
mercoledì, febbraio 18, 2009
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Ale [Tredici]
E' la legge più antica del mondo. Homo homini lupus, diceva Hobbes. Selezione naturale, la chiamava Darwin. Lotta per la sopravvivenza, menzionava Verga. E' la legge del più forte, la legge più antica del mondo.
Ema si passa una mano tra i capelli scuri, sospira e afferra la valigia. Si dirige verso la stazione. Sognando. Si blocca, infila le dita nella tasca del giaccone. Okay, non l'ha dimenticato. Prosegue, verso la stazione. Lo vede vicino all'ingresso. Lo degna dello stesso sguardo che concede ai passanti: mezzo secondo, quanto basta. Il passante si chiama Ivan. Quando vede Ema gli si avvicina. No, anzi, gli si mette davanti. "Ciao io sono Ivan piacere di conoscerti bomber tu sei" Ema sente alcune parole pronunciate d'un fiato, vede una mano di fronte a sé e scende dal mondo dei sogni. Stringe la mano e si presenta. "Grande bomber posso chiederti se tu hai genitori io purtroppo non ho avuto questa fortuna mi guardi con un altro occhio adesso vero" Ema intanto lo osserva. Capisce a malapena cosa dice Ivan, sia perché nelle veloci parole dell'altro non ci sono pause, sia perché per lui è più interessante osservare la gente. Risponde, mantenendosi sul vago. "Lo sapevo bomber allora ascolta io qui ho alcune cartoline che le signore del nostro centro dipingono per noi tutto quello che ti chiediamo bomber è una mano ma non in faccia ahahah semplicemente si tratta di rinunciare a una pizza e a una cocacola no bomber ti chiediamo di darci una mano" Parole, parole, parole. Ema lo osserva, ne delinea la personalità: Ivan non legge mai il giornale, tifa una squadra di calcio che potrebbe essere il Pisa, il sabato sera esce e fa tardi, non vorrebbe svegliarsi presto la mattina, usa il rasoio per farsi la barba ma solo di martedì. Pensieri, pensieri, pensieri. Cinque minuti dopo Ema ha lasciato dei soldi a Ivan. "Ciao bomber" "Ciao, Ivan." Cinque minuti dopo ancora Ema comincia a farsi un'idea ancora più precisa di Ivan. E' furbo, uno scansafatiche, uno che ha capito la vita quel tanto che gli serve per poter sfruttare le debolezze umane. Peccato - pensa.
E' la legge del più forte, la legge più antica del mondo. Sarebbe tanto bello se vincesse il più giusto, anziché il più forte. Non è così - pensa Ema - vince il più forte. Solo nei miei sogni vince il più giusto. Ma Ema non ha intenzione di adattarsi. Rimarrà fedele alla sua onestà. Ma, a scanso di equivoci, diventerà più forte.
domenica, febbraio 15, 2009
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Ale [Tredici]
E' tutta questione di e. Con l'accento acuto lascia l'odore della tempesta. Con quello grave diventa una parola pesante, un tonfo sordo che rimbomba. Vènti. Vénti. Che disperazione, e non è un gioco.
Mi sono semi-depresso. La giovinezza è l'unica cosa che merita di essere posseduta - dice Sir Henry Wotton - e io mi sto allontanando dalla mia.
E' quel due che dà fastidio. Quel due prima dello zero. E' una cifra che apre i cancelli di nuove prospettive, che segna i confini di due mondi distinti. Ora c'è il nuovo da esplorare, quello degli Enti. Qualcuno mi ha detto che passerà in fretta, qualcun'altro mi ha rassicurato che è il migliore. Ne ho concluso che dipende da come lo si vive.
Quindi, con un milione di buoni propositi nel cuore, e altrettanti cattivi propositi nei denti, sono pronto ad affrontare gli Enti. Che lo spettacolo cominci!
domenica, febbraio 08, 2009
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Ale [Tredici]
Randy Pausch, docente presso la Carnegie Mellon University, consapevole di vivere i suoi ultimi mesi in quanto condannato alla morte da un cancro al pancreas, nel settembre `07 tiene la sua ultima lezione insegnando a tutti il valore della vita. Il prof. Pausch muore a Chesapeake (Virginia) il 25 luglio 2008.
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